Ti accoglie nei suoi abiti di moderna vestale, Roberta Pugno, nella sua casa atelier. Jeans e morbidi stivaletti di nappa rossi arancio. Dal primo momento che l’ho vista, mi è sembrato di scorgere che mi porgesse, dal palmo della mano, una fiamma di conoscenza e saggezza. Saranno quei capelli rossi che formano volute di fuoco attorno al suo viso sottile. Il suo lavoro pittorico, materico e tonale, chiede di essere toccato ancor prima che osservato. E’ la fascinazione dei quattro elementi che ti rapisce: il rosso magmatico degli sciamani, l’arancione caldo del dio sole, i marroni laboriosi delle viscere della terra, gli azzurri ventosi delle dee del cielo. E’ quel crepitio di ori, rame e conchiglie, triturate e mescolate con antica sapienza al colore, steso per strati, che insegue un unico filo del discorso, ma mai uguale a se stesso; è quel crepitio che ti invita al silenzio mentre, infine, osservi le epopee dell’anima e dell’animus stratificati sulle tele di Roberta Pugno.

E nel silenzio avverti anche un rumore di pensieri, parole e simboli che aleggiano nell’atelier e che, con segni delicati, prorompono anch’essi dai rilievi sulle tele e dalle incisioni nelle tele, che si lasciano sfiorare. E pare di ascoltare una musica. E mentre mi chiedo come faccia a cogliere l’attimo preciso in cui la materia apparentemente inerte si fa materia vivente, nella vivida armonia di materie, colori e gesti pittorici, mi accorgo che, nei quadri di Roberta, tutto si risolve in una rigorosa formalità che ti restituisce un’essenzialità meditativa, tanto calda quanto necessaria. Necessaria anche nella poeticità dei titoli dei quadri medesimi: Materiamatrice, Simultaneamente la luce, Tempo interno. Ogni volta diverso. Tanto per ricordarne alcuni. C’è un che di archetipale che si profonde nei quadri di Roberta: non si tratta semplicemente di echi di civiltà mediterranee, ma di una ricerca che si propaga tra le civiltà perdute di un Mediterraneo che si spinge sino in Medio Oriente, in un dialogo incessante tra l’arte cuneiforme degli scribi e il logos della grecità, alla ricerca di una totalizzante felicità primigenia. Una posizione filosofica che si trasfigura in immagine tempo pensante. Seduta su un divano di pelle bordeaux, rigorosamente con carta e penna per fermare le tracce della memoria, inizia la conversazione tra Roberta e me.

Partiamo da una specificità del tuo lavoro, che ben si lega anche con gli intenti della nostra Rivista, Formafluens: che rapporto esiste per te, tra pittura e scrittura?

Per quanto mi riguarda più che di scrittura preferisco parlare di immagini-segno, di linea, per la precisione. Ho iniziato lavorando sui caratteri cuneiformi. Mi piaceva la scrittura cuneiforme perché è fortemente legata alla materia: la si otteneva incidendo molto velocemente avolette di argilla con dei bambù tagliati…

Una scrittura che crea una comunicazione materica, quindi?

Sì, fortemente sensoriale… la migliore lettura delle tavolette avveniva la sera quando il sole radente contrastava i pieni e i vuoti… poi ho lavorato sulla scrittura fenicia, e su quella etrusca.. ma qui occorrerebbe affrontare quella straordinaria invenzione umana che è la linea…

Ma la tua relazione tra il disegno della scrittura e il segno pittorico?

Diciamo che ho per la scrittura un’ammirazione, un’invidia quasi, è il massimo di fusione tra espressione e comunicazione. Credo comunque che nel dipingere segni e scrittura vi sia un grande uso della fantasia. Meno materia hai a disposizione e più la fantasia è costretta ad apportare all’oggetto un movimento “concentrato”. La fantasia stessa è più libera di spaziare, fino a raggiungere immagini le più vibranti possibili.

Vibranti quanto significanti. Le tue lune, sono una forma di scrittura… l’elemento lunare ricorre molto spesso nei tuoi quadri, penso che so, a “Creare ricreare”, però è altrettanto vero che tu dipingi un’epopea del Sole.

Sole e fuoco fanno sì che io sia vissuta dagli altri come una pittrice “mediterranea”. Mi muovo dal mondo lunare indefinito verso un mondo solare che dona maggiori certezze.

C’è un che di esoterico nelle tue affermazione: è proprio della tradizione occidentale prevedere un percorso iniziatico che parta dalle caratteristiche della Luna per approdare a quelle del Sole.

Il percorso verso la bellezza io lo chiamo realizzazione psichica che comprende la capacità di scendere nella profondità di se stessi con fiducia, e non con la paura o l’orrore di trovarci chissà cosa.
E’ una possibilità che abbiamo tutti e che rende la specie umana diversa da tutte le altre.
La mia ricerca sta nel lasciare una traccia la più duratura possibile di tale capacità di entrare nel profondo di sè con gioia.

Posso dire che rompi un po’ con lo stereotipo ottocentesco dell’artista Sturm und Drang? C’è una vitalità in te che fa intravedere con l’arte una relazione amorosa, anziché una travagliata battaglia.

Io parto da un pensiero: tu non sei il mio nemico, ma qualcuno con cui entrare in rapporto. Anche quello che tu chiami Sé interiore, l’inconscio, è “qualcuno” con cui entrare in rapporto, un diverso. Nel senso che tutti abbiamo una integrità iniziale alla nascita che ci rende uguali. La teoria di una “nascita sana”, per chi lavora con l’arte, è una grandissima fonte di energia. Una teoria che contrasta prepotentemente con l’idea del peccato originale: questo pensiero religioso inventato per assoggettare le persone e per impedire la realizzazione dell’identità.

Stai parlando della teoria dello psichiatra Massimo Fagioli…

Sì certo, sto parlando della sua ricerca sulla realtà umana, sull’origine del pensiero e della immagine, sulla sua affermazione che l’essere umano è per il rapporto. Tutti i grandi artisti sembrano solitari e lontani dall’umanità, invece… è proprio per il grande amore e la grande generosità che hanno verso gli esseri umani, che creano opere che muovono emozioni e affetti. Esiste sempre un vincolo, come sostiene Giordano Bruno nel De Vinculis in genere: siamo sempre in relazione gli uni con gli altri.
L’altro da sé è fondamentale: è un viaggio di scoperta continua. L’altro, il diverso, l’inconscio.

Allora per te l’elemento Terra, che assieme al Fuoco, ricorre così tanto nelle tue opere è come una sorta di base di partenza della vita e del rapporto con le persone?

Per me entrare in risonanza fisica è fondamentale. E il mio mezzo di rapporto sono le immagini. Ho dipinto da sempre, poi, nel tempo, mi sono dotata di una struttura solida. L’arte è una modalità di conoscenza talmente profonda che non si può pensare di rubare il Fuoco senza saperlo gestire.

Nella tua fascinazione per i grandi Eroi, c’entra il tuo rapporto con il tempo

Io amo i percorsi lunghi: questo è un modo per non lasciarsi bruciare dal fuoco, ad esempio. Mi sono chiesta dove fossi collocata, dove fosse la mia storia. Non la mia storia contingente. Non c’entravano i miei genitori, non c’entravano neppure le sofferenze infantili che pure ho vissuto: io volevo andare oltre.
I miei genitori non erano i miei referenti nel lungo percorso, non era a loro che volevo mostrare la mia interiorità o chiedere approvazione. Io avevo gli Eroi e con loro mi confrontavo.

Come è arrivato l’incontro con Gilgamesh?

Come ti dicevo gli Eroi erano i miei referenti: andavo da loro, ne sperimentavo le caratteristiche, felice di tornare ogni volta con qualcosa in più. Nel mio peregrinare, mi dicevo: “Vai in quella parte di Storia che la scuola insegna poco”. E’ così che mi sono imbattuta nei Sumeri che erano pacifici, evoluti, intelligenti. Hanno inventato la scrittura, non a caso. Gilgamesh è un eroe che vive in una società altamente civilizzata ed erige una città costruita con l’argilla. Molti dei racconti presenti nell’epopea di Gilgamesh sono stati poi ripresi dalla Bibbia che si è autodefinita la prima Scrittura, e non è vero.

Il Diluvio Universale, ad esempio…

Sì, certo. Invece sono i rapporti umani il nucleo fortissimo dei miei eroi. Gilgamesh peregrinando alla ricerca dell’immortalità incontra Enkidu, un guerriero forte quanto lui. Invece di combattersi come avevano istigato gli dei diventano amici. Enkidu, allevato dagli animali, è un uomo primordiale, ma viene iniziato alle arti della civilizzazione da una donna, una prostituta sacra, che in sei giorni e in sette notti d’amore, gli insegna la bellezza della civiltà.

Beh, nell’epopea di Gilgamesh, Shamkat attraverso il rapporto sessuale rende l’uomo civilizzato, lo rende più intelligente. Tutta altra storia dalla terribile tentatrice Eva che rende il maschio peccatore, per non parlare di Lilith…

E’ una visione della immagine femminile tanto positiva quanto rivoluzionaria. Per certi versi c’entra la potenza dell’insegnamento della Dea Madre. La donna è stata la prima a fare le incisioni rupestri, la prima ad esprimersi con le immagini. E noi dobbiamo sollevare il velo dell’inganno perpetrato nei secoli.

E in tutto questo come entra il tuo rapporto anche con Giordano Bruno?

Sono convinta che Giordano Bruno avesse una immagine fortissima femminile: lui si ribella come solo le donne sanno fare. Dietro lui c’è Ipazia, non lo dimentichiamo. Ma occorre sapersi ribellare, questo è il segreto E’ questo che io intendo per saper usare il fuoco. Gli eroi suicidi non sono l’unico modello possibile.

Vorrei tornare al tuo originale uso della materia nei tuoi quadri. Qual è stato il percorso?

Beh, ho bruciato parecchi pavimenti e mobili per le mie sperimentazioni. Non avevo leggi da seguire, visto che non ho voluto fare l’Accademia e ci sono arrivata per prove ed errori e alcuni danni… Il mio intento era quello di portare dentro la pittura la forza della scultura (frequentavo gli studi degli scultori tedeschi) e l’invisibilità del suono (ho fatto molti anni di Conservatorio). Dalla fusione della potenza della scultura con la leggerezza della musica volevo ricavare la profondità delle immagini.

Infatti tu fai un grande uso proprio dei colori della scultura: oro, bronzo, rame.

Avevo necessità di sperimentare i colori della materia. Oro bronzo e rame hanno in sé una forte astrazione, sono privi di connotato figurativo. Mi interessa dare l’immagine della materia come magma incandescente che nasce da dentro.

Tu curi molto i titoli dei tuoi quadri.

Sì, è nel titolo che cerco di comunicare il pensiero che sta dietro la realizzazione di ogni mio quadro.
Il titolo più è corto, più è pregnante e tocca il vivo dell’immaginazione.

Ma quando ti accingi a dipingere, sono i sogni o le visioni ad ispirarti?

No, non i sogni, ma le visioni. L’arte è un sogno ad occhi aperti, ovviamente tutto diverso dal delirio.
Io dipingo anche dieci ore di seguito, quasi in uno stato autoipnotico, per lasciare sgorgare cose che hanno subito una vita propria.

E le simbologie che utilizzi, da cosa scaturiscono?

I simboli arrivano alla coscienza come concentrati di realtà. Sono delle visioni monadiche per dirla con Giordano Bruno. Sono forme concentrate di pensiero-energia che necessitano di una specifica forma espressiva, cioè di materia, e solo di quella.

Insomma un continuo dialogo sulla soglia dell’invisibile tra interiore ed esteriore, il tuo.

Si tratta di territori interumani da esplorare. E la sensazione di esistere che dà un’opera d’arte è formidabile. Come dicevo prima la vita dell’arte come quella dell’essere umano risiede in due radici: la materia e il fuoco, cioè l’energia.

Eppure in tanta materia simbolica, nei tuoi quadri emergono anche dei volti …

Si tratta di forme di colore come quando ti avvicini al volto dell’amato che diventa tutta la realtà e così, dipingendo, io, il volto lo distendo, come se si trattasse di un abbraccio.

Intervista di Cristina Cilli in Formafluens International Literary Magazine, dicembre 2011,
in occasione della mostra B/N TEMPO MATERIA Remax Place Roma, dicembre 2011 – gennaio 2012